L’Istituto Romano San Michele, che occupa da quasi un secolo l’imponente complesso edilizio esteso su un’area di circa 120mila metri quadrati in piazzale Antonio Tosti, costituisce un po’ l’ossatura e l’anima del quartiere di Tor Marancia. Perché tra la missione dell’Istituto e la storia del territorio c’è una vera e propria osmosi.
Il “San Michele”, con un’esperienza di quasi cinque secoli nel ricovero, nell’educazione e nella cura di soggetti deboli ed emarginati, è frutto di diverse vicissitudini storiche che ne hanno fatto il principale organismo e il simbolo stesso dell’attività pubblica di assistenza e beneficenza nella Capitale. Dal primo nucleo fondato nel 1582 nel cuore di Roma, passando per l’attività a favore di ragazzi, donne e anziani bisognosi nel complesso monumentale di San Michele presso Porta Portese, anche con innovative esperienze di scuola-lavoro, è poi approdato negli anni Trenta a Tor Marancia, dove è ormai radicato anche sul piano sociale
Il quartiere di Tor Marancia, venuto su contemporaneamente al comprensorio del “San Michele”, ne rappresenta un po’ l’altra faccia della medaglia, in quanto caratterizzato da consistenti problematicità e da forti esigenze di assistenza. Non a caso i locali e i servizi dell’Istituto sono spesso utilizzati dalla comunità locale, è il caso del centro anziani, e le forme di collaborazione tra l’Ipab e gli organismi del territorio sono pressoché costanti.
NASCITA E RINASCITA DI TOR MARANCIA
Oggi contrassegnato come undicesima zona urbanistica del Municipio Roma VIII, a ridosso di Piazza dei Navigatori e dell’Ardeatino, il quartiere di Tor Marancia è nato a partire dal maggio 1933 in una zona paludosa e avvallata di piena campagna, prossima ad un altro comprensorio-simbolo di quegli anni, la Garbatella.
La nuova borgata raccolse circa tremila persone, quasi tutte di origine meridionale. Si trattava principalmente di immigrati dal Mezzogiorno, di famiglie messe sul lastrico dalla liberalizzazione degli affitti e di cittadini espulsi dai rioni centrali a seguito degli sventramenti fascisti.
Una relazione del Fascio di Appia Antica del marzo 1935 attesta l’ambiente fortemente insalubre, con almeno sessanta casi accertati di tubercolosi tra gli adulti, la presenza di 350 disoccupati e di numerosi ex carcerati e vigilati speciali.
Le persone, per lo più lavoratori nell’edilizia, vivevano in una vera e propria baraccopoli spontanea o realizzata dall’Istituto case popolari (abitazioni classificate come “case minime”), allagata per diversi mesi all’anno. Franco Romani, uno degli abitanti più anziani del quartiere intervistato da un settimanale, ha ricordato: “Da ottobre a marzo le case si allagavano, diventavano come palafitte, esondava il fosso con tutti i pesci e riuscivamo a pescare direttamente in cucina”.
Le baracche di un’unica stanza, in muratura o in legno, avevano pavimenti in terra battuta, servizi igienici in comune e mancanza di acqua. Alcune avevano piccoli giardini-orti. Gli occupanti erano a titolo gratuito.
In zona non c’erano scuole, trasporti pubblici e pronto soccorso. La cura della salute era affidata ad un solo medico condotto.
A causa dei periodici allagamenti per l’ubicazione infossata tra i valli di Tor Carbone e di Grottaperfetta, per la densità abitativa e per i frequenti fatti di sangue, la borgata – denominata anche con il più romano “Tormarancio” – assunse il nomignolo della più grande città cinese, “Shanghai”.
Il protagonista di uno dei racconti romani di Alberto Moravia, “Il Pupo” del 1954, dichiara: “Ebbene, io vivo a Tormarancio, con mia moglie e sei figli, in una stanza che è tutta una distesa di materassi, e quando piove, l’acqua ci va e viene come sulle banchine di Ripetta”.
Nel primo dopoguerra, grazie alla legge De Gasperi sul risanamento delle borgate, ebbe inizio un’opera di bonifica. Nel 1948 il quartiere era così malsano che fu deciso di raderlo al suolo e di edificare nuovi caseggiati popolari. Grazie in particolare all’intercessione dei senatori comunisti Edoardo D’Onofrio ed Emilio Sereni, la costruzione delle case popolari ebbe inizio alla fine degli anni Quaranta e si concluse nel 1960. Tor Marancia è arrivata ad avere circa 20mila residenti e i due terzi delle case della zona sono di proprietà dell’Ater, l’ente territoriale per le case popolari.
Il quartiere, però, continua ad essere considerato difficile, con un alto tasso di abbandono scolastico, di disoccupazione, di criminalità e di spaccio. Era originario di qui uno dei più noti componenti della banda della Magliana, Angelo Angelotti, detto “er Caprotto” o “er Palombaro” per la passione subacquea, ucciso nel 2012 in una sparatoria seguita ad una rapina a Mezzocammino.
L’eroe della borgata, tuttavia, è Agostino Di Bartolomei, classe 1954, storico capitano della Roma dello scudetto 1983. Ha imparato a giocare a calcio nel campo della chiesa di quartiere, San Filippo Neri. Nel 2016, nel giorno della ricorrenza della sua prematura scomparsa, gli studenti del liceo artistico Caravaggio di Tor Marancia gli hanno dedicato uno splendido murale.
Proprio questa forte identità di quartiere, con la riscoperta delle sue storie e l’analisi delle affascinanti contraddizioni, sta contribuendo a far rinascere Tor Marancia, un po’ come è avvenuto al Pigneto e a Testaccio. È in atto una massiccia opera di riqualificazione degli spazi urbani, che ha visto fiorire principalmente le opere di street art destinate ad abbellire gli edifici, rendendoli più vivi e colorati.
Tra l’8 gennaio e il 27 febbraio 2015, ben venti artisti internazionali con quasi mille bombolette spray e 765 litri di vernice hanno dato vita a “Big City Life”, progetto ideato da 999Coontemporary (Stefano Antonelli), finanziato con 45mila euro dalla Fondazione Roma, con 30mila euro dal Campidoglio e patrocinato dall’VIII Municipio. L’iniziativa, dal costo complessivo di 166mila euro, si è concretizzata in 22 murales monumentali, alcuni dei quali alti fino a quattordici metri. Le opere, che prendono spunto proprio dalla storia del quartiere, sono visibili in viale di Tor Marancia, al civico 63, sulle case popolari dello storico lotto 1 dove vivono circa cinquecento persone. Ormai l’area è considerata un museo artistico a cielo aperto.
Tra le opere più ammirate c’è “Nostra signora di Shanghai” dello street artist Mr. Klevra, in cui è raffigurata una Madonna di fattezze bizantine che abbraccia il Bambino. “La Madonna rappresenta Roma che abbraccia il figlio (la borgata), che le richiede attenzioni e tenerezza. È quello che questo quartiere chiede alla città: attenzioni e amore,” ha dichiarato l’artista.
L’artista Diamond ha raffigurato una donna addormentata e dalla cornice spunta un drago, omaggio al nomignolo cinese del quartiere. “Roma è una bella donna addormentata, immobile, una città che non riesce a svegliarsi dal torpore,” ha spiegato l’autore.
L’artista francese Seth con l’opera “Il bambino redentore” ha raccontato un’altra storia del quartiere, quella del piccolo Luca, morto mentre giocava a calcio.
I writer Lek & Sowat si sono ispirati alla storia di Andrea Vinci, ragazzo disabile a causa di un tuffo finito male, che vive al secondo piano di una palazzina popolare senza ascensore. L’opera si chiama “Veni, vidi, Vinci”.
Il riacceso interesse per la zona include anche la riscoperta della chiesa razionalista di Nostra Signora di Lourdes, eretta il 1º ottobre 1957 su progetto dell’architetto toscano Gino Cancellotti, autore negli anni Trenta dei piani regolatori di Chianciano, Sabaudia e Guidonia. La chiesa, a pianta poligonale, ha una facciata in laterizio scandita in tre settori da fasce di cemento armato ed è affiancata da un alto campanile.
Oggi, grazie anche a questa parziale rinascita ambientale, il quartiere è stato vivacizzato da nuovi ristoranti e pub. Anche dal punto di vista abitativo, la zona è stata rivalutata, grazie pure alla vicinanza con l’Appia Antica e l’Eur.
UNA STORIA IDENTITARIA – Alla rinascita di Tor Marancia è collegata anche la riscoperta delle radici storiche del territorio.
Il nome più antico, quello di Torre delle Vigne, è presente in documenti del 1385, 1453 e 1547, dove è indicato come Turris de Vineis o Turre delle Vigne extra portam S. Pauli. La tenuta è stata conosciuta anche come Casale delle Peschiere.
L’attuale denominazione, secondo una radicata tradizione, avrebbe origine dalla riscoperta medievale di un personaggio della Roma antica, il liberto Amaranthus, che nel II secolo d.C. prese in gestione il fondo della famiglia Numisia Procula: i resti di tale villa sono ancora visibili nei pressi di via Giulio Aristide Sartorio.
Un’altra versione vuole l’origine del nome legato alla cospicua presenza di corsi d’acqua e “marane” (o, alla romana, “marrane”), cioè stagni. La zona risulta infatti essere tra i più copiosi bacini acquiferi della campagna romana, grazie alla presenza di tre sorgenti: Teresina, Amelia e Ermanno. Tra le “marrane” più note c’è quella “dell’Acquataccia” (o “maranaccia”, da cui Tor Marancia), che sorgeva nell’area che oggi ospita l’ospedale Cto. Qui molti ragazzi nel dopoguerra andavano a farsi il bagno. A testimonianza di ciò ci sono alcune scene del film “Sotto il sole di Roma” di Renato Castellani del 1948, con la sequenza di ragazzi che fanno il bagno nella “marrana” dell’Almone, dove il fiume prendeva appunto il nome di Acquataccia.
Al di là dell’origine della denominazione, la zona ha sempre rivestito un’importanza strategica, principalmente per la prossimità di importanti strade (Appia, Ostiense, Ardeatina), la vicinanza della basilica di San Paolo, la presenza appunto dell’Almone, il terzo fiume di Roma, e del fosso di Grottaperfetta. Non a caso nel medioevo in questo territorio vennero edificate diverse torri di avvistamento. Una di queste, Torre Marancia, è andata distrutta probabilmente agli inizi del Seicento, dal momento che nella mappa del Catasto Alessandrino del 1660 già non ve ne è più traccia. Si trovava in via delle Sette Chiese, nell’attuale proprietà degli Horti Flaviani, nei pressi delle Catacombe di Santa Domitilla.
Di un’altra torre duecentesca, simbolo attuale del territorio, sono tuttora presenti le rovine in viale di Tor Marancia. Fino al XVIII secolo tale torre era denominata di San Tommaso o Torre delle Vigne. È alta circa 15 metri, ha sei metri per lato con mura spesse alla base circa un metro e trenta. Conserva i resti della merlatura originaria e un gocciolatoio marmoreo. Possiede cinque ordini di fori per le travi e numerose feritoie alte circa un metro.
La torre, in passato, era collegata al casale omonimo, situato tra via delle Sette Chiese e via Nesazio, da una strada oggi corrispondente a via Casal De Merode, dove l’Istituto Romano San Michele conta diverse proprietà. Il casale di Tor Marancia è nella proprietà degli Horti Flaviani.
Tra le altre torri, oggi distrutte, ricordiamo quella di Santa Maria, nei pressi dell’odierno Palazzo della Regione Lazio, demolita nel 1941 per far spazio a via Cristoforo Colombo, e quella della Vigna nei pressi di via Sartorio.
Nel Medioevo, nella proprietà della tenuta, di circa 253 ettari e confinante con quella di Grottaperfetta, si sono alternate le famiglie Conti, Porcari, Leni, Tebaldi e Bottoni. Nel 1481 ne divenne proprietario l’ospedale del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum (l’attuale ospedale San Giovanni), che la tenne fino al 1797, quando passò al duca Luigi Braschi Onesti, nipote di papa Pio VI, e quindi al conte Domenico Lavaggi.
Dal 1816 al 1824 appartenne a Maria Anna di Savoia, duchessa di Chiablese, figlia del re di Sardegna Vittorio Amedeo III di Savoia, che sfruttò le cave di pozzolana e intraprese con l’archeologo Luigi Biondi una campagna di scavi da cui emersero i resti delle ville romane di Munatia Procula e di Numisia Procula, con mosaici, statue ed epigrafi antiche, oggi distribuite in palazzi e musei romani.